Dopo il divorzio di Grazia Deledda

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Siamo in Sardegna, la giovane Giovanna Era è sposata con il contadino Costantino Ledda. Questi viene condannato con l’accusa di aver ucciso uno zio. L’uomo, nonostante sia innocente, accetta la condanna per favorire la moglie: Giovanna, infatti, con il marito in carcere, può chiedere il divorzio e sposare un ricco proprietario terriero. Ma quando il vero colpevole confessa, permettendo la scarcerazione di Giovanni, i due ex coniugi si vedono costretti a intraprendere una relazione clandestina.

IL DIVORZIO IN ITALIA 

Attraverso il suo racconto la scrittrice sarda ha saputo ben documentare, praticamente in diretta, la prima condanna sociale dell’istituto del divorzio, in un momento di grande dibattito. La prima proposta di legge sul tema in Italia, infatti, venne presentata due volte senza successo al Parlamento nel 1878 e nel 1880 dal deputato Salvatore Morelli. Dopo la sua morte ci riprovarono ancora nel 1882, nel 1883 e, dopo un periodo di silenzio, nel 1892, sempre con esito negativo. Nel 1902 (l’anno di pubblicazione del romanzo della Deledda), con il Governo di Giuseppe Zanardelli arrivò una proposta che sembrava destinata al successo, anche per effetto dell’interessato dibattito creatosi attorno. Ma il disegno di legge venne fatto cadere con 400 voti sfavorevoli contro 13 a favore. Solo nel 1970 si riuscì finalmente a inserire l’istituto del divorzio nel nostro Paese con la legge Fortuna-Baslini.
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Descrizione

Grazia Deledda

Nacque a Nuoro, in Sardegna, il 27 settembre 1871, quinta di sette tra figli e figlie,[3] in una famiglia benestante.[4]

Il padre, Giovanni Antonio Deledda, laureato in legge, non esercitava la professione. Agiato imprenditore e possidente, si occupava di commercio e agricoltura; si interessava di poesia e lui stesso componeva versi in sardo, e aveva fondato una tipografia e stampava una rivista. Fu sindaco di Nuoro nel 1863. La madre era Francesca Cambosu.[5] Dopo aver frequentato le scuole elementari fino alla classe quarta, Grazia venne seguita privatamente da un professore ospite di una parente della famiglia Deledda che le impartì lezioni di base di italianolatino e francese[6]. Proseguì la sua formazione totalmente da autodidatta.[4] Importante per la formazione letteraria di Grazia, nei primi anni della sua carriera da scrittrice, fu l’amicizia con lo scrittore, archivista e storico dilettante sassarese Enrico Costa, che per primo ne comprese il talento. Per un lungo periodo si scambiò delle lettere con lo scrittore calabrese Giovanni De Nava, in cui si complimentava del talento della giovane scrittrice. Queste missive, poi si trasformarono in lettere d’amore in cui si scambiavano dolci poesie. Poi per l’assenza di risposte da parte di Giovanni per un lungo periodo, smisero di scriversi. La famiglia venne colpita da una serie di disgrazie: il fratello maggiore, Santus, abbandonò gli studi e divenne alcolizzato, il più giovane, Andrea, fu arrestato per piccoli furti. Il padre morì per una crisi cardiaca il 5 novembre 1892 e la famiglia dovette affrontare difficoltà economiche. Quattro anni più tardi morì anche la sorella Vincenza.[5]

Attività letteraria giovanile

Nel 1888 inviò a Roma alcuni racconti, Sangue sardo e Remigia Helder, pubblicati dall’editore Edoardo Perino sulla rivista “L’ultima moda”, diretta da Epaminonda Provaglio. Sulla stessa rivista venne pubblicato a puntate il romanzo Memorie di Fernanda.

Nel 1890 uscì a puntate sul quotidiano di Cagliari L’avvenire della Sardegna, con lo pseudonimo Ilia de Saint Ismail, il romanzo Stella d’Oriente, e a Milano, presso l’editore Trevisini, Nell’azzurro, un libro di novelle per l’infanzia.

Deledda incontrò l’approvazione di letterati, quali Angelo de Gubernatis e Ruggero Bonghi, che nel 1895 accompagnò con una sua prefazione l’uscita del romanzo Anime oneste.[7]

Collabora con riviste sarde e continentali: “La Sardegna”, “Piccola rivista” e “Nuova Antologia“.

Fra il 1891 e il 1896 sulla Rivista delle tradizioni popolari italiane, diretta da Angelo de Gubernatis, venne pubblicato a puntate il saggio Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna, introdotto da una citazione di Tolstoi, prima espressione documentata dell’interesse della scrittrice per la letteratura russa. Seguirono romanzi e racconti di argomento isolano. Nel 1896 il romanzo La via del male fu recensito in modo favorevole da Luigi Capuana.[7] Nel 1897 uscì una raccolta di poesie, Paesaggi sardi, edita da Speirani.

Maturità

Grazia Deledda ritratta con il marito e il figlio

Il 22 ottobre 1899 si trasferì a Cagliari[8], dove conobbe Palmiro Madesani, un funzionario del Ministero delle Finanze[9], che sposò a Nuoro l’11 gennaio 1900[10]. Il Madesani era originario di Cicognara di Viadana, in provincia di Mantova, dove anche Grazia Deledda visse per un periodo. Dopo il matrimonio, Madesani lasciò il lavoro di funzionario statale, per dedicarsi all’attività di agente letterario della moglie. La coppia si trasferì a Roma nel 1900, dove condusse una vita appartata. Ebbero due figli, Franz e Sardus.[4]

Nel 1903 la pubblicazione di Elias Portolu la confermò come scrittrice e l’avviò ad una fortunata serie di romanzi ed opere teatraliCenere(1904), L’edera (1908), Sino al confine (1910), Colombi e sparvieri (1912), Canne al vento (1913), L’incendio nell’oliveto (1918), Il Dio dei venti (1922). Da Cenere fu tratto un film interpretato da Eleonora Duse.

La sua opera fu apprezzata da Giovanni Verga oltre che da scrittori più giovani come Enrico ThovezEmilio CecchiPietro PancraziAntonio Baldini.[11] Fu riconosciuta e stimata anche all’estero: D.H. Lawrence scrive la prefazione della traduzione in inglese de La madre. Grazia Deledda fu anche traduttrice, è sua infatti una versione di Eugénie Grandet di Honoré de Balzac.

Il premio Nobel e la morte

Tomba di Grazia Deledda nella chiesa della Solitudine a Nuoro

Il 10 dicembre 1927[12] le venne conferito il premio Nobel per la letteratura 1926 (non vinto da alcun candidato l’anno precedente, per mancanza di requisiti), «per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano».[13].

Un tumore al seno di cui soffriva da tempo la portò alla morte nel 1936, quasi dieci anni dopo la vittoria del premio. Sulla data del giorno di morte c’è controversia: alcune fonti riportano il 15 agosto[14], altre il 16[15].

Le spoglie della Deledda sono custodite in un sarcofago di granito nero levigato nella chiesetta della Madonna della Solitudine, ai piedi del monte Ortobene di Nuoro.

Lasciò incompiuta la sua ultima opera Cosima, quasi Grazia, autobiografica, che apparirà in settembre di quello stesso anno sulla rivista Nuova Antologia, a cura di Antonio Baldini e poi verrà edita col titolo Cosima.

La sua casa natale, nel centro storico di Nuoro (Santu Predu), è adibita a museo.[16]

Critica

La critica in generale tende a incasellare la sua opera di volta in volta in questo o in quell’-ismo: regionalismo, verismo, decadentismo, oltre che nella letteratura della Sardegna. Altri critici invece preferiscono riconoscerle l’originalità della sua poetica.

Il primo a dedicare a Grazia Deledda una monografia critica a metà degli anni trenta fu Francesco Bruno.[17] Negli anni quarantacinquantasessanta, nelle storie e nelle antologie scolastiche della letteratura italiana, la presenza di Deledda ha rilievo critico e numerose pagine antologizzate, specialmente dalle novelle.

Tuttavia parecchi critici italiani avanzavano riserve sul valore delle sue opere. I primi a non comprendere Deledda furono i suoi stessi conterranei. Gli intellettuali sardi del suo tempo si sentirono traditi e non accettarono la sua operazione letteraria, ad eccezione di alcuni: CostaRujuBiasi. Le sue opere le procurarono le antipatie degli abitanti di Nuoro, in cui le storie erano ambientate. I suoi concittadini erano infatti dell’opinione che descrivesse la Sardegna come terra rude, rustica e quindi arretrata.[18]

Verismo

Ai primi lettori dei romanzi di Deledda era naturale inquadrarla nell’ambito della scuola verista.

Luigi Capuana la esortava a proseguire nell’esplorazione del mondo sardo, “una miniera” dove aveva “...già trovato un elemento di forte originalità“.[19]

Anche Borgese la definisce, “degna scolara di Giovanni Verga“.[20] Lei stessa scrive nel 1891 al direttore della rivista romana, La Nuova AntologiaMaggiorino Ferraris: “L’indole di questo mio libro a me pare sia tanto drammatica quanto sentimentale e anche un pochino veristica se per ‘verismo’ intendiamo il ritrarre la vita e gli uomini come sono, o meglio come li conosco io.”

Differenze rispetto al Verismo

Ruggero Bonghi, manzoniano, per primo si sforza di sottrarre la scrittrice sarda al clima delle poetiche naturalistiche.[21]

Emilio Cecchi nel 1941 scrive: “Ciò che la Deledda poté trarre dalla vita della provincia sarda, non s’improntò in lei di naturalismo e di verismo… Sia i motivi e gli intrecci, sia il materiale linguistico, in lei presero subito di lirico e di fiabesco…[22]

Il critico letterario Natalino Sapegno definisce i motivi che distolgono Deledda dai canoni del Verismo: “Da un’adesione profonda ai canoni del verismo troppe cose la distolgono, a iniziare dalla natura intimamente lirica e autobiografica dell’ispirazione, per cui le rappresentazioni ambientali diventano trasfigurazioni di un’assorta memoria e le vicende e i personaggi proiezioni di una vita sognata. A dare alle cose e alle persone un risalto fermo e lucido, un’illusione perentoria di oggettività, le manca proprio quell’atteggiamento di stacco iniziale che è nel Verga, ma anche nel Capuana, nel De Roberto, nel Pratesi e nello Zena.[23]

Decadentismo

Vittorio Spinazzola scrive: “Tutta la miglior narrativa deleddiana ha per oggetto la crisi dell’esistenza. Storicamente, tale crisi risulta dalla fine dell’unità culturale ottocentesca, con la sua fiducia nel progresso storico, nelle scienze laiche, nelle garanzie giuridiche poste a difesa delle libertà civili. Per questo aspetto la scrittrice pare pienamente partecipe del clima decadentistico. I suoi personaggi rappresentano lo smarrimento delle coscienze perplesse e ottenebrate, assalite dall’insorgenza di opposti istinti, disponibili a tutte le esperienze di cui la vita offre occasione e stimolo.”[24]

Deledda e i narratori russi

La scrittrice Grazia Deledda

È noto che la giovanissima Grazia Deledda, quando ancora collaborava alle riviste di moda, si rese conto della distanza che esisteva tra la stucchevole prosa in lingua italiana di quei giornali e la sua esigenza di impiegare una lingua italiana più vicina alla realtà e alla società dalla quale proveniva.

La Sardegna, tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento, tenta come l’Irlanda di Oscar Wilde, di Joyce, di Yeats o la Polonia di Conrad, un dialogo alla pari con le grandi letterature europee e soprattutto con la grande letteratura russa.

Nicola Tanda nel saggio, La Sardegna di Canne al vento scrive che, in quell’opera di Deledda, le parole evocano memorie tolstojane e dostoevskiane, parole che possono essere estese a tutta l’opera narrativa deleddiana: «L’intero romanzo è una celebrazione del libero arbitrio. Della libertà di compiere il male, ma anche di realizzare il bene, soprattutto quando si ha esperienza della grande capacità che il male ha di comunicare angoscia. Il protagonista che ha commesso il male non consente col male, compie un viaggio, doloroso, mortificante, ma anche pieno di gioia nella speranza di realizzare il bene, che resta la sola ragione in grado di rendere accettabile la vita».

Negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, quelli in cui la scrittrice si dedica alla ricerca di un proprio stile, concentra la sua attenzione, sull’opera e sul pensiero di Tolstoj. Ed è questo incontro che sembra aiutarla a precisare sempre meglio le sue predilezioni letterarie. In una lettera in cui comunicava il progetto di pubblicare una raccolta di novelle da dedicare a Tolstoj, Deledda scriveva: «Ai primi del 1899 uscirà La giustizia: e poi ho combinato con la casa Cogliati di Milano per un volume di novelle che dedicherò a Leone Tolstoi: avranno una prefazione scritta in francese da un illustre scrittore russo, che farà un breve studio di comparazione fra i costumi sardi e i costumi russi, così stranamente rassomiglianti». La relazione tra Deledda e i russi è ricca e profonda, e non è legata solo a Tolstoj ma si inoltra nel mondo complesso degli altri contemporanei: Gor’kijAnton Čechove quelli del passato più recente, Gogol’Dostoevskij e Turgenev.

Altre voci di critici

Attilio Momigliano in più scritti[25][26] sostiene la tesi che Deledda sia “un grande poeta del travaglio morale” da paragonare a Dostoevskij.

Francesco Flora[27][28] afferma che “La vera ispirazione della Deledda è come un fondo di ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza, e nella trama di quei ricordi quasi figure che vanno e si mutano sul fermo paesaggio, si compongono i sempre nuovi racconti. Anzi, poiché i primi affetti di lei si formano essenzialmente con la sostanza di quel paesaggio che ella disegnava sulla vita della nativa Sardegna, è lecito dire, anche per questa via, che l’arte della Deledda è essenzialmente un’arte del paesaggio.”

Testimonianze di scrittori stranieri

Su di lei scrisse prima Maksim Gorkij e, più tardi, D. H. Lawrence.

Maksim Gorkij raccomanda la lettura delle opere di Grazia Deledda a L. A. Nikiforova, una scrittrice esordiente. In una lettera del 2 giugno del 1910 le scrive: «Mi permetto di indicarle due scrittrici che non hanno rivali né nel passato, né nel presente: Selma Lagerlof e Grazia Deledda. Che penne e che voci forti! In loro c’è qualcosa che può essere d’ammaestramento anche al nostro mužik».

David Herbert Lawrence, nel 1928, dopo che Deledda aveva già vinto il Premio Nobel, scrive nell’Introduzione alla traduzione inglese del romanzo La Madre: «Ci vorrebbe uno scrittore veramente grande per farci superare la repulsione per le emozioni appena passate. Persino le Novelle di D’Annunzio sono al presente difficilmente leggibili: Matilde Serao lo è ancor meno. Ma noi possiamo ancora leggere Grazia Deledda, con interesse genuino». Parlando della popolazione sarda protagonista dei suoi romanzi la paragona ad Hardy, e in questa comparazione singolare sottolinea che la Sardegna è proprio come per Thomas Hardy l’isolato Wessex. Solo che subito dopo aggiunge che a differenza di Hardy, «Grazia Deledda ha una isola tutta per sé, la propria isola di Sardegna, che lei ama profondamente: soprattutto la parte della Sardegna che sta più a Nord, quella montuosa». E ancora scrive: «È la Sardegna antica, quella che viene finalmente alla ribalta, che è il vero tema dei libri di Grazia Deledda. Essa sente il fascino della sua isola e della sua gente, più che essere attratta dai problemi della psiche umana. E pertanto questo libro, La Madre, è forse uno dei meno tipici fra i suoi romanzi, uno dei più continentali».

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